Castellazzo Bormida
Chiesa della SS. Trinità da Lungi
A Castellazzo Bormida, anticamente conosciuta come Gamondio, le numerose chiese medievali superstiti testimoniano una profonda devozione popolare. Tra queste, la chiesa della Santissima Trinità da lungi si distingue come uno dei più notevoli e suggestivi esempi di architettura medievale della regione, conservando al suo interno affreschi risalenti al XIV e XV secolo, accompagnati da una straordinaria e raffinata decorazione plastica dei capitelli senza eguali.
Posizionato tra il fiume Bormida e il torrente Orba, il luogo di Castellazzo Bormida, con la sua straordinaria storia millenaria e la fervente devozione religiosa, sorge lungo la direttrice che collega Tortona a Genova, parte di un antico sistema viario che include anche le antiche via romane (Aemilia Scauri e Fulvii). L’antica Castellazzo Bormida, conosciuta anche come Gamondio, fu menzionata per la prima volta nel 938 come dono del re d’Italia Ugo d’Arles alla sua futura moglie, Berta di Svevia. Il nome “Gamondio”, presumibilmente di origine germanica, potrebbe derivare dalla sua posizione geografica presso la confluenza fluviale dell’Orba nella Bormida. In effetti, faceva parte della riserva di caccia reale chiamata Silva Urba, una vasta area di proprietà della corona italica tra il Tanaro, la Bormida e l’Orba. L’antica corte longobarda è stata individuata nel tracciato ellittico dell’attuale centro abitato, ampliato successivamente in un “castrum” medievale con residenze periferiche e strutture difensive. Della fortificazione muraria esterna si hanno notizie solo nel 1420 quando ormai è già parte del Ducato di Milano. Uno dei pochi esempi ancora visibili di quello che fu il sistema difensivo quattrocentesco è il torrione chiamato localmente “della Gattara”: si tratta di una torre difensiva di notevoli dimensioni, di forma circolare, con una fondazione a base scarpata, dotata all’interno di un piano utilizzato per la dislocazione delle truppe e l’impiego di artiglieria leggera (le feritoie sono ancora ben visibili oggi). Dopo essere stato abbandonato come struttura difensiva, gli archi interni furono murati, il torrione fu svuotato e convertito in una neviera.
Una fervente devozione popolare
Nel 1106, la comunità di Gamondio, che godeva di piena autonomia comunale, contava già diciassette chiese. Nel XVII secolo, il censimento ne registrò trentacinque, tra chiese e oratori, che ha portato a descrivere l’entusiasmo religioso della popolazione nei termini di una “competizione devozionale”.
Il più antico edificio religioso probabilmente si identifica nell’attuale chiesa di San Martino, esistente già dal Mille, dal momento che la chiesa venne “copiata” dai gamondiesi in Alessandria quando parteciparono alla fondazione della città, avvenuta entro il 1168. Vi è menzionato un convento dal 1347, ma i resti della storia medievale si rintracciano oggi solo nei capitelli dell’attuale zona presbiteriale di inizio XII secolo. La chiesa di Santa Maria della Corte viene tradizionalmente riconosciuta in quella “in curte regia Gamundii”, fondata da Maria, figlia del re longobardo Adalberto. Citata dal 1005, fu retta fino al 1807 ai Padri Serviti, insieme al convento, costruito nei primi del Quattrocento e convertito nell’attuale casa della salute cittadina: al suo interno, un ambulatorio medico conserva un lacerto pittorico tardo quattrocentesco di un probabile ex voto con San Rocco e San Sebastiano. Colpita da incendi e demolizioni, conserva oggi in facciata un mirabile manufatto in terracotta, raffigurante la Madonna con il bambino, forse parte di un polittico, asseribile al XV secolo. Sempre nel centro abitato, l’oratorio di Santa Maria della Pietà conserva un gruppo ligneo del Compianto sul cristo morto, datato agli ultimi decenni del Quattrocento, forse di altra provenienza, che nonostante massicci rimaneggiamenti, tra cui ridipinture e innesti estranei, è considerato il più antico gruppo ligneo di questa iconografia nel territorio e parte della ricca produzione scultorea alessandrina.
All’esterno del recinto urbano altomedievale sorgeva la chiesa di Santo Stefano extra muros, legata a una presenza monastica e probabilmente parte di una florida espansione urbanistica avvenuta verso il XII secolo. La sua conformazione romanica si individua oggi nelle tracce del metodo costruttivo evidente nella muratura dell’abside esterno e nella disposizione dei laterizi a spinapesce nel fianco meridionale, ma anche nella struttura a unica navata tri-absidata, di cui quella centrale più ampia delle due laterali, con sottostante cripta a oratorio, sopravvissute ai rifacimenti barocchi.
Chiesa della SS. Trinità da Lungi
Sul tracciato di un’antica via consolare romana, fuori dal centro urbano, sorge isolata la chiesa campestre della Santissima Trinità da lungi, chiamata così anche per distinguerla dall’oratorio della Pietà eretto nel centro del paese. L’attenta osservazione dall’esterno ci permette di ammirare un esempio integro e magistrale di prassi architettonica medievale: la policromia lapidea e laterizia produce un suggestivo e rarissimo esito. L’abside infatti presenta tre aperture a monofora, costitute da unici blocchi calcarei monolitici accuratamente lavorati, con l’apertura centrale che differisce nella terminazione ad arco, producendo un raffinato ritmo, arricchito da mensole di appoggio che sostenevano gli archetti pensili del coronamento superiore (di cui ne rimangono superbi esempi ad intreccio).
Parte di un complesso religioso più ampio, la chiesa è già funzionante all’inizio del XII secolo, quando compare elencata nel 1134 tra i possedimenti concessi ai canonici regolari di Santa Croce di Mortara in una bolla papale, diventando un centro per l’accoglienza dei viandanti. Nel XIV secolo inizia però ad essere oggetto di una serie di alienazioni, passando prima alla giurisdizione della chiesa di San Martino di Alessandria, nel 1352 i suoi beni vengono affidati al laico Pietro Trotti, del quale la chiesa seguirà le vicende di questa famiglia fino al 1650, per giungere infine nel 1731 tra le proprietà dei Ghilini che intervengono con una serie di restauri.
Le notizie documentarie testimoniano una fase di abbandono cinquecentesca e alcuni interventi settecenteschi, come la costruzione dell’abitazione del romito fino a quando nel 1839 venne indicata interdetta perché profanata. I registri vescovili segnalano però che dal 1699 la confraternita di san Nicolò Tolentino di Castellazzo Bormida officia nel giorno dei morti ogni anno una messa per i morti, dando inedite notizie sulla vita comunitaria locale. Altri interventi significativi si ebbero tra la fine dell’Ottocento e gli Anni Venti del Novecento, quando si scoprì la monofora occultata in facciata e si scrostarono gli intonaci all’interno, permettendo oggi di ammirare delle murature “da manuale”, che raccontano una raffinatissima tecnica costruttiva romanica, la quale non utilizzò mattoni, bensì frammenti di antiche tegole romane, specificatamente scelte e posate, e le fasce di ciottoli, di eguale misura, disposte accuratamente a spinapesce. La chiesa ha una conformazione semplice, con un transetto, una sola abside e tre navate, di cui quella centrale più larga e separata dalle altre due da tre archi sostenuti da pilastri con semicolonne addossate.
Il raccordo tra archi e pilastri si compone di capitelli magistralmente eseguiti in pietra arenaria, che mostrano una straordinaria e raffinatissima decorazione plastica, senza eguali nella regione. I capitelli hanno forma cubica o troncoconica, sono scolpiti con grande perizia (e rifiniti con il trapano) e presentano una raccolta di motivi, dalle stilizzazioni del tipo corinzio, ai motivi vegetali più consueti (rosette, trecce nastriformi, foglie cuoriformi), alle raffigurazioni animalesche, come singolari dragoni che fuoriescono dalla bocca dell’uomo. In particolare, gli elementi zoomorfi dei capitelli della navata sembrano aver accolto un fine dottrinale ed edificante.
L’abside invece presenta tre campagne pittoriche di grande interesse, tra il XIV e il secolo successivo, riemerse dallo scialbo grazie ai restauri di inizio Novecento. A partire da sinistra, la Madonna del latte è assisa in un maestoso trono, al centro un Cristo benedicente e a destra termina la raffigurazione della Trinità, presentata da tre persone uguali ma distinte, sedute alla mensa eucaristica, in atto benedicente.
Il pannello mariano appare eseguito al di sopra dello strato del Cristo, mostrando anche una qualità esecutiva minore, nonostante il linearismo delle figure e una studiata composizione architettonica.
L’ambientazione spaziale, il trono cuspidato, la resa dei panneggi (di cui abbiamo purtroppo perso la caratterizzazione coloristica) e l’estremo calligrafismo dei volti hanno permesso di accostare questo intervento ad alcune produzioni pittoriche locali della prima metà del XV secolo.
Il Cristo in trono, benché in parte illeggibile per le massicce “spicchiettature”, sembra legarsi facilmente ai modi del primo Maestro di Cassine (colui che decora la sala capitolare francescana), attestando questo pannello alla prima metà del XIV secolo, anche per il modo in cui lo schienale è decorato con il caratteristico motivo a losanghe e per il fregio cosmatesco a tre colori. Infine, la Trinità, nell’iconografia di tre personaggi identici, stringe un rapporto iconografico con lo stesso soggetto eseguito nell’arcosolio di sinistra del presbiterio della vicina abbazia di Santa Maria di Rivalta Scrivia, rendendo possibile un’attribuzione a una personalità locale nella prima metà del XV secolo.